di Remo Musumeci
Atletica leggera n. 304, aprile 1985
Steve Ovett, che vincerà, e Francesco Panetta, impegnati sotto la pioggia alla Scarpa d’Oro di Vigevano (Foto Olympia).
San Vittore Olona, 31 marzo

Il prato è stregato. Maghi e maghe lo frequentano di notte recitando sabba antichi al chiaro di luna mentre il morto fiume Olona scorre senza rumore. Qualcuno di questi maghi deve aver gettato l’incantesimo sul prato: “Qui vincerà l’italiano che avrà vinto agli angoli della terra, che sarà asciutto come il tronco del vecchio albero che dorme sulla sponda del fiume. Che sarà scuro e tenebroso”. L’incantesimo non dice, ahimè, quando e anche se abbiamo individuato in Alberto Cova colui che ha vinto ai quattro angoli della terra, che è asciutto come il vecchio tronco dormiente alla musica sinistra del fiume e scuro e tenebroso, nessuno potrà dirci quando il giovane asso brianzolo saprà soddisfare la profezia e vincere la Cinque Mulini.
L’avrebbe vinta domenica 31 marzo, nel sole, su un terreno soffice e pulito e contro avversari certamente gagliardi e che però non spingevano di più di quanto spingesse il gambalunga finlandese Martti Vainio sulla pista olimpica di Los Angeles. Alberto mi par di vederlo, agile e composto, coi suoi passetti brevi e radenti volare incollato all’americano bello e biondo Pat Porter ai piccoli e sottili etiopi Fiseha Abebe (che tanto sottile non è), Wodajo Bulti e Bekele Debele. E mi par di vederlo che scatta entrando nella pista dello stadiolo a San Vittore Olona e che semina, elegante ed eretto, fiero e lieve, la pattuglia africana. Sarà per un’altra volta, Alberto, la magia è scritta che sarai tu a spezzarla.
Credevo, francamente in un Werner Schildhauer, più forte, capace di mettersi tra gli africani e lasciare che lo attaccassero. Credevo di vederlo lanciare una di quelle tremende volate lunghe che ti strappano il cuore. Mi è piaciuto Frank Heine, campione della Germania Est sui prati del cross. Mi pare però che sia troppo massiccio: lo vedrei lanciatore di giavellotto o decathleta o magari velocista. Nell’ultimo giro ha bruciato tutta l’adrenalina per andare su Pat Porter assieme alle gazzelle etiopi che su quel treno sembravano bambini felici ai quali i genitori avevano tolto il guinzaglio. O soldati in libera uscita dopo una lunghissima milizia con l’arma in spalla. E d’altronde le caserme d’Etiopia sono piene di corridori dei quali non si conosce il nome e che da noi sarebbero grandi campioni.
Corri soldato, corri. E corrono. Hanno scritte nei geni tutte le informazioni possibili sulla corsa istintiva.
Pat Porter ha recitato con straordinaria diligenza la parte dell’eroe. La giornata gli piaceva, così come gli piaceva quella piccola città un po’ vecchia e un po’ nuova, un po’ sonnacchiosa, paciosa e pasciuta. E gli piacevano quei prati logori e stanchi, quell’erba che non è mai completamente verde, che sembra che canti o che preghi o che pianga, a seconda dell’umore che hai quando l’ascolti. E ha deciso di fare una corsa con la baionetta. “E d’altronde”, si è detto, “che cosa potrei fare con questi maledetti che corrono come se dovessero sfuggire a una pestilenza?”.
È scappato, subito, bello, forte, luminoso, con la gente che lo osservava incantata perché è un figlio bello che piacerebbe a tutte le mamme è un nipote ridente che piacerebbe a tutti i nonni. E l’arcangelo era inseguito da tre piccoli demoni neri e impassibili, antichi come le terre antiche sorte dal mare milioni di anni fa che abitano e corrono.
Ogni tanto i demonietti in maglia verde gli si facevano d’appresso e lui ne ascoltava l’ansimare che pareva un discorso in antica lingua ignota: “Ma dove vai?”, diceva – forse – il discorso, “dove vai grande uomo bello e biondo?”.
“Già, dove vado?”. E via ancora a tutto vapore, perfettamente inserito nel cuore dell’eroe. Si voltava e i piccoli demoni impassibili non c’erano: li aveva inghiottiti il superstite mulino dell’antico prato esausto. E nella gioia dell’arcangelo biondo germogliava un singhiozzo che era una preghiera: “Dio aiutami, io sono così grande e solo e quei dannati sono così piccoli e tanti”. Ma Dio, impegnato col proconsole Karol Wojtyla e con altri problemi di maggiore entità, non ha avuto modo né di ascoltarlo, con attenzione né di aiutarlo. E alla fine i tre demonietti verdi lo hanno acciuffato e gli hanno straziato l’anima con una volata che lui nemmeno poteva sognarsi di fare. Ha vinto, come dicono le classifiche, Fiseha Abebe, meno noto di Bekele Debele secondo e di Wodajo Bulti terzo come a Lisbona. L’arcangelo eroe si è consolato con una tenera bestemmia subito perdonata e col quarto posto, primo del resto del mondo.
Frank Heine, il velocista-giavellottista che aveva sbagliato campo di gara, si è rallegrato di essere il primo degli europei. Franco Boffi, ottavo, ha gioito per essere stato il primo degli italiani e Gianni De Madonna il secondo.

a sin :L’arrivo vittorioso dei tre etiopi
a dx : Franco boffi, prima degli italiani.
La corsa delle donne l’ha vinta l’americanina Betty Springs che invece in quel prato delle streghe ci stava benissimo col suo bel nome di primavera. Agnese Possamai invece ci stava malissimo. E non mi stupisce perché non basta essere “Madre coraggio” e sopportare senza morirne l’inverno sperperato tra corse sui tondini coperti e sui prati. I prati stregati non guariscono il fegato e i muscoli.


