di Fabio Monti
Rivista ATLETICA LEGGERA N. 243

16 marzo 1980
Uccellato e beffato dallo statunitense Virgin Craig (revenu di Diable Vauvert, dalla casa del diavolo, come aveva sottolineato nel suo titolo l’Equipe) e dal tedesco occidentale Hans Jurgen Orthmann, che corre con un cappellino giallo in testa, sette giorni prima a Parigi nel Cross delle Nazioni, Nick Rose era arrivato in Italia per prendersi una meritata rivincita. A Parigi aveva fatto quasi tutto lui, correndo sempre in testa nel nobile prato dell’ippodromo di Longchamp; e allora era pronto a consolarsi, vincendo la “Cinque Mulini”, che, ancora una volta, ha dimostrato di essere il più bel Cross del mondo e di non avere quasi nulla da invidiare neppure alla prova mondiale della specialità.
Rose aveva in cuor suo sorriso, vedendo il terreno fangoso, per la pioggia caduta nelle quarantotto ore precedenti la gara. E in gara? Beh, faceva l’impossibile per staccare tutti, con continui strappi e cambiamenti di ritmo e con la certezza che prima o poi gli avversari si sarebbero arresi. È dal 1972 che gli inglesi non vincono il cross sanvittorese; questo avrebbe potuto essere l’anno buono per il bis. E invece gli avversari non si arrendevano mai. Lui scattava, trattenendo qualche volta l’anima fra i denti e gli altri tre, un soldato semplice dell’esercito belga, Léon Schots, un sergente dell’esercito etiope, Girma Hanna, e un tedesco orientale di appena vent’anni, ma già vincitore dei 5.000 nella finale di Coppa Europa a Torino, Hans Jörge Kunze, non mollavano mai.
Lo lasciavano tirare un po’, qualche volta lo rilevavano in testa, ma, quel che più conta, non perdevano mai contatto con lui. Così, più passavano i minuti, più macinava chilometri e più Rose cominciava ad essere divorato da un triste presentimento. Al suono della campana, si accorgeva che ormai per lui era davvero finita. Un nuovo attacco poco prima del mulino Meraviglia (l’unico sopravvissuto, chissà come, alle assurdità della civiltà industriale), con minore convinzione dei precedenti. Poi non restava che sperare nel miracolo. Ma il miracolo non poteva esserci e non c’è stato. Così il biondo corridore inglese, che aveva dominato il Cross di Volpiano, che era stato terzo a Parigi, che ha ventotto anni e una laurea conseguita negli Stati Uniti, alla Western Kentucky University e che, nonostante tutto, non è neppure certo di trovare un posto nella squadra inglese per Mosca (Olimpiadi), faceva la fine di un suo illustre predecessore, Dave Bedford, il quale era stato battuto allo sprint in tante gare. A Rose andava peggio: questi infatti aveva vinto la Cinque Mulini nel ‘72, dominandola dal primo all’ultimo metro.

Leon Schots all’interno del mulino (foto P. Colli)
Eliminato Rose, il cross sanvittorese diventava una questione a tre. E la spuntava, in una volata lunga e neppure troppo sofferta, proprio Léon Schots, questo prodigioso corridore belga, che raccoglie allori soltanto nelle campestri e che non riesce a trovare gloria in pista, così come in fondo era successo anche ad un suo connazionale, Eric De Beck. L’ultimo a resistere all’attacco risoluto di Schots era stato il piccolo e scheletrico etiope Girma Hanna, vera rivelazione del giornata, sebbene le liste mondiali del ‘79 lo collocassero al cinquantesimo posto nei 5.000 con un 13:26.6 ottenuto a Dresda il 16 giugno e gli assegnassero un doppio nome di battesimo, Haile Wolde.
Sembrava che ancora una volta, come era già accaduto nella edizione ‘77, la Cinque Mulini dovesse parlare la dolce lingua amarica, ma neppure Hanna (o Hana, secondo un’altra trascrizione) resisteva alla furia di Shots, che indossava una maglia rossa e che andava a vincere la Cinque Mulini per la seconda volta consecutiva, impresa riuscita, in tempi recenti, soltanto a pochi nobili del mezzofondo mondiale: Jazy (62 e 63) e Bay (75 e 76). Kunze era terzo, l’etiope Kedir, il più atteso degli africani, sesto. Floroiu, come sempre, finiva lontano e battuto, all’ottavo posto. Ma per trovare un italiano occorre aspettare l’arrivo di Otello Sorato, compagno di squadra di Ortis, che aveva dato forfait, dopo la batosta di Parigi. Finiva undicesimo e il piazzamento, onorevole per lui, era il peggiore ottenuto da un italiano in 48 edizioni (consecutive) della classica sanvittorese. Una riprova del difficile momento del mezzofondo italiano e di come il cross non sia molto amato dalle nostre parti.
L’attenzione di tutti era comunque riversata sul campionissimo Sebastian Coe, la gemma della 48ª Cinque Mulini. Dato per disperso quattro giorni prima della gara, si era poi presentato regolarmente e per tempo, nella serata di venerdì a Linate. Così, vedendolo sbarcare dall’aereo, qualcuno sussurrava che ormai i campioni stranieri in Italia riescono a portarli soltanto Turri, Galli e amici, gli infaticabili organizzatori di un cross che, nonostante l’età, è sempre più affascinante. Una malignità, ma come in tutto c’era anche un fondo di verità o comunque un riconoscimento alla serietà con cui si organizza questo cross.
Coe recitava bene la sua parte fuori dal campo: firmava autografi, sorrideva, parlava con i giornalisti, annunciava che sarebbe tornato in Italia per gareggiare su strada, spiegava l’equivoco nel quale era incorso quando aveva ricevuto il cortese invito degli organizzatori. Aveva letto di un cross “piatto e veloce”, denominato “5 Mills”. Ma non capendo cosa potessero centrare cinque mulini con una campestre si era affannato a correggere quel mills in miles. Per sua sventura, il percorso invece di cinque miglia era di quasi dieci chilometri e poi non era né piatto né veloce. Così finiva inghiottito dal gruppo subito dopo lo sparo. Ingrassato in viso e non certo agile nel passo, avrebbe forse voluto ritirarsi a metà gara. Ma, da serio professionista qual è continuava. La sua gara finiva per essere una lunga volata in difesa di un ventunesimo posto che gli era conteso da Panetti. Coe riusciva a spuntarla e mentre il padre Peter si affannava a ripetere: «un’esperienza da non ripetere. E poi Seb aveva male ad una gamba. Quanto fango». Coe sorrideva pensando che l’ingaggio, a titolo di rimborso spese, valeva pure quella fatica. Sorrideva vedendo anche i due giornalisti del “Daily Mail”, che si è garantito l’esclusiva delle notizie che lo riguardano sino a Mosca in cambio di un congruo numero di sterline. Erano venuti al suo seguito fino a San Vittore Olona e c’era pure l’inviato del “Daily Telegraph”. Niente affatto preoccupati per la figura non proprio esaltante del loro campione.

Grete Waitz corsa e arrivo solitario (foto P. Colli)
Chi invece dimostrava di essere implacabile e imbattibile, era la norvegese Annegrete Waitz, la ventisettenne maestrina di Oslo, che da quando corre non conosce sconfitte né nelle gare su strada né nelle campestri. Le avversarie la potevano guardare in faccia solo alla partenza; al primo giro aveva già cinquanta secondi sulla seconda, Cristina Tomasini. All’arrivo il suo vantaggio era di un minuto e dieci.